PARTORIRE IN CASA AL TEMPO DELLA “LEVATRICE COMUNALE” VIAGGIO TRA TIMORI, SUPERSTIZIONI E TRADIZIONI POPOLARI

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IL GIORNO 30 OTTOBRE IL DOTT. BAGNOLI GIULIANO, PEDIATRA DI COMUNITA’ E RICERCATORE DI LINGUISTICA DIALETTALE E TRADIZIONI POPOLARI HA TENUTO UN INTERESSANTISSIMO EVENTO FORMATIVO PRESSO L’ORDINE DEI MEDICI E CHIRURGHI DI REGGIO EMILIA. A SEGUIRE ALCUNI DEI TANTI ANEDOTTI RACCONTATI DURANTE LA SERATA.

Chi è la levatrice comunale? E’ un’ostetrica, dalla voce latina Obstetrix, da obstare (stare davanti), quindi colei che sta di fronte alla partoriente, nel XIV – XV secolo voce volgare “ostetrice” (o levatrice o mammana). La levatrice, voce segnalata nel 1951, deriva dal latino “levare”, ossia colei che leva il neonato nel parto, nel dialetto reggiano veniva anche definita “praticouni”, conoscitrice, esperta competente , e piu’ recentemente, impiriche, ossia coloro che procedono con la loro esperienza.

Il racconto del dott. Bagnoli riguarda una levatrice della terra reggiana tra il 1940 e 50, la sig.ra Beneventi Maddalena, detta Renata, nata a Castellarano il 4 maggio 1918 e defunta nel 2005. Egli le fece una lunga intervista e ne trasse i seguenti spunti.

La levatrice aveva l’importante compito di mediare con la tradizione popolare (la comare o cmedra o cmadar), di estirpare i pregiudizi nocivi, di tollerare quelli non nocivi e di introdurre moderni concetti di igiene e profilassi delle malattie infettive.

Era mandata dal comune, comare “abilitata”, presuntuosa e non gradita a tanti (suocere, comari…), dotata di virtu’ stregonesche (poteva mandare il malocchio), deteneva i segreti del sesso (se la intendevano coi mariti) ed erano spesso oggetto di advance da parte dei mariti; ma col tempo la sua fama si traformo’, divenne quindi confidente e alleata delle puerpere, sapeva ascoltare i problemi dei mariti/padri, era un punto sicuro di riferimento in caso di problemi e sapeva mantenere i segreti (ad esempio gli aborti provocati).

Giungeva a casa della puerpera a piedi (in mezzo alla neve con stivali e pantaloni), in bicicletta (sulla canna della bici col marito), in bicicletta propria (fanali, portapacchi, tela cerata), sul calesse, biroccio, carretto (su paglia compressa, coperta sulle ginocchia e ombrello in mano), con Jeep scoperta (residuato bellico) col marito o carabinieri, con Vespa o Lambretta proprie, con auto proprie (Topolino, Bianchina, Giardinetta).

La suocera difendeva la dignita’ e onorabilita’ della casa, con lei si definivano i termini del parto (eta’ gestazionale del feto, eta’ presunta del neonato, paternita’), di solito non partecipava al parto poiche’ spesso era la nuora che non lo desiderava, venivano infatti preferite madri, sorelle, zie, cognate. La levatrice dava allora valore alla serenita’ della partoriente (effetto su dilatazione, spinte efficaci, recettivita’ dei consigli..), era insomma la Padrona del Parto.

Quale era l’arredo della camera da parto?

La camera veniva riscaldata con fogli di carta alle finestre, bracie, padleina dal bresi..poi c’era il letto, di cui la levatrice verificava la solidita’, il materasso, sdoppiato, rivestito con biancheria pulita, coperto con tela cerata o al sendrer (il colatoio per il bucato), un’asse rigida (tulirola), tra materasso e rete, su materasso morbido (pajoun), un catino (coccio del lavabo o bacinella di smalto), la culla, la cesta del pane (sestoun), appesa con funi dentro la pisota o ciapa-pesa (telo assorbente), la borsa dell’ostetrica, sul como’, su telo pulito (si diceva ai fratellini che conteneva il neonato!), l’acqua bollita (in calderi d’acqua), catini, secchi e recipienti puliti, il corredo bimbo, pezze di cotone, triangoli, fasce, magliette di sotto, cuffietta..non erano necessarie calze e bavaglie, al bisogno una o piu’ lenzuola vecchie ma pulite da smembrare (s’ciancher al linsol).

La comare (cmedra) era una donna esperta, ma non sempre…presente al letto, aveva accompagnato la gravida..stava presente in disparte o se ne andava..si qualificava e chiedeva di rimanere…La levatrice poteva servirsi anche della loro collaborazione nei parti lunghi e laboriosi o posti in luoghi poco accessibili…se le comari avevano compiuto azioni nel parto (legatura al cordone..assistenza al secondamento..ecc) spesso chiedevano alla levatrice di tacere sul loro intervento.

RITUALI E SUPERSTIZIONI DEL PARTO

Se la superstizione non interferiva con le pratiche ostetriche, la Levatrice le rispettava tacitamente, di solito non contrastava per non creare cariche d’ansia, sensi di colpa, smarrimento nella donna; le credenze erano parte del vissuto antico, delle tradizioni, della cultura popolare piu’ intima.

C’erano rituali non interessanti la prassi ostetrica?

I gemelli potevano nascere se nel rapporto si eiaculava 2 volte di seguito…il nascituro era femmina se la pancia in prominenza diffusa era rivolta verso il basso, mentre era maschio se era raccolta in alto e a punta…

Il parto difficoltoso? non bisognava passare sotto una scala.. (al scalet..la schela)

Una macchia sul corpo del colore dell’alimento desiderato era una voglia (al voj, ed cafe-latt, de sresa, ed copa, ed murtadela) si sviuluppava la’ dove la donna si fosse toccata al momento del desiderio..al momento del desiderio toccarsi le natiche!

Per favorire contrazioni ed espulsione far bere alla puerpera un uovo cotto nelle braci (ov brinee), per allontanare il rischio di emorragia post-parto mettere sotto il cuscino della partoriente i pantaloni ripiegati del marito, per avere un’abbondante montata lattea seppellire “la seconda” (placenta) ai piedi delle mura esterne della casa, vicino al tubo di gronda.

Per favorire un buon allattamento materno mangiare il brodo per 6-8 giorni e le carni di una gallina nera (fornita dalla madre della partoriente), bere vino frizzante ai pasti, prima di coricarsi alla sera, il giorno dopo il parto, bere una tazza di latte caldo; per mantenere la salute materna (si riteneva infatti che la madre, nei successivi 40 giorni, fosse molto piu’ debole del solito), per 40 giorni non andare in campagna al lavoro, per 20 giorni non avvicinarsi al fuoco e al forno (panificazione) perche’ il calore portava malattie agli occhi, per 40 giorni portare al collo un fazzoletto di lana annodato (malattie da raffreddamento)

Se a tratom acse’ na vaca, gh’omia mia da trater acse’ anch la dona?

Le vecchie sole, invidiose, gelose, attaccavano la maledizione col solo sguardo (malocchio) e non erano gradite in visita a puerpera e neonato; per il ringraziamento e la purificazione della madre dovevano passare 40 giorni (feres tirer in cesa) ed il neonato non poteva ancora essere battezzato.

Come venivano gestite le emergenze (Eclampsia, emorragia post-parto, neonato sofferente) a domicilio? I rimedi erano il rapido ricorso alle cure mediche ospedaliere (difficolta’ dei trasporti, strade sconnesse, agenti atmosferici..), il ricorso a Sant’Anna, patrona e sorella delle partorienti, e battezzare il neonato a rischio di morte.

Il compenso simbolico alla comare e alla levatrice erano i cosiddetti “du pan” (due pani o due cioppe o due tere); se il debito era sanato, il bimbo sarebbe cresciuto loquace e senza disturbi del linguaggio. Nel 1946 la tariffa della levatrice era di 200 lire ed il pagamento avveniva in parte in natura (conigli, galline, salami, uova, frutti..), in parte con l’offerta dei pasti consumati a casa della partoriente, con invitia pranzo in eventi particolari (matrimoni, Natale..) e l’assistenza poteva proseguire per terapie alla puerpera. “Dunque  s’usi ogni possibilie diligenza nel provvedersi di comare, la quale non solo sia esercitatissima e prudentissima nell’officio della comare, ma sopra il tutto sia timorata di Dio; non strega e ministra del diavolo, e che sia di buoni e honesti costumi, non ruffiana”.

Un’antica tradizione guastallese sosteneva che San Pedar (San Pietro) avesse presso di se’ tutti i lumen (lumini ad olio) di chi stava per nascere. Era lui che, per beneplacito del Signore e per la sua fedelta’ a Cristo, aveva ricevuto l’importante compito di decidere la lunghezza della vita di ogni uomo. A lui era stato di decidere il tempo della vita in salute e in malattia, il tempo in felicita’ e in tristezza; la somma di questi tempi comportava una certa quantita’ di olio da inserire nel lumino. E Pietro, prima di accendere il lumicino, dosava per ciscuno la propria quantita’ di olio da bruciare che corrispondeva alla durata della vita intera. Pietro al metiva l’oili dentr’al lumen e po’ l’impiava al stupen (metteva l’olio dentro al lumino e poi accendeva lo stoppino). E quand al stupen an’ne gh’ava peu oli al se sumrsava (quando lo stoppino non aveva piu’ olio, si spegneva), cioe’ l’uomo moriva.

PRIME CURE: IL TAGLIO DEL CORDONE OMBELICALE

La comare, intesa come seconda madre (co-madre), recideva il cordone ombelicale (al curdoun o al budeli ed l’umbreghel), attendeva che il cordone finisse di pulsare e dopo circa una decina di minuti faceva la prima legatura del cordone a circa 5 cm dalla base dell’ombelico utilizzando un filo di cotone bianco, la teja; l’altra legatura era poco sopra la prima di circa 2-3 cm,; eseguiva il taglio netto e veloce del cordoun e lo avvolgeva con una fettuccia di lino o cotone larga circa 4-5 cm.

preparava poi una soluzione blandamente disinfettante con 1 litro di acqua precedentemente bollita piu’ 3 cucchiai d’aceto bianco e di vino; mediante un fazzolettino di cotone faceva gocciolare un po’ di soluzione acidula negli occhi ed umettava le palpebre pulendole dalla vernice caseosa e puliva le labbra, la bocca, le coane nasali e le orecchie. Il neonato veniva poi lavato dentro l’acqua precdentemente bollita e resa tiepida (primo bagnetto); la temperatura era saggiata dalla cmedra immergendo il gomito nell’acqua stessa; cercava di asportare, con l’acqua caldo-tiepida e una pezzina morbida di cotone, la sostanza biancastra, detta unt dla pela (vernice caseosa), che ricopriva il bimbo. Non si usava il sapone fatto in casa per lavare il bimbo perche’ questo era troppo irritante per la pelle delicata del neonato che veniva subito dopo avvolto nelle fasce e,quale iniziale portafortuna, doveva indossare come primo camicino bianco di seta pura, un camisin bianc ed sejda; lo indossera’ nei momenti piu’ importanti della vita neonatale, come il giorno della visita dal gudas e dla gudasa dal bates (del padrino e della madrina del battesimo) (dal germanico medievale/gotico: waidan, guida, conduttore). Se vi erano infezioni o arrossamenti, la cmedra preparava una soluzione salina facendo bollire un cucchiaio di sale da cucina in mezzo litro d’acqua, con una pezzana si detergeva il moncone del cordone, si faceva poi un impacco con la soluzione salina per mezz’oretta almeno; lo asciugava per bene e lo avvolgeva con una foglia fresca ed lengua ed can (lingua di cane, piantaggine, plantago Lanceolata), la medicazione veniva fatta 2 volte al di’, e dopo l’impacco  di disinfezione salina si facevano brevi impacchi al moncone del cordone con infuso di foglie ed estremita’ fiorite (anche essiccate) di erba da taj (millefoglie, Achillea Millefolium L.).

Per prevenire l’onfalocele o ergna ed l’umbreghel (ernia ombelicale) negli anni 30 e 40 si utilizzava una moneta di bronzo da des sold (da dieci centesimi), un baiocco di bologna (un baioch) ricoperto da un solo lato da un sottile strato di piombo, posto dentro un sacchettino di tessuto oppure avvolto intorno ad una fettucccia di sottile cotone, larga dai 3 ai 5 cm, a seconda della moneta, lunga dai 15 ai 20 cm. Nella bassa reggiana un cuscinetto simile era chiamato plumaseul (piumacciolo?), fatto con 10 centesimi di rame o d’argento ed una striscia di sottile tessuto di lino; il conenimento era per circa 20-25 giorni ma a volte anche tutto il primo anno di vita, qualora vi fossero degli evidenti problemi erniari.

EMISSIONE DEL MECONIO

I pannolini sporchi di meconio andavano bollti nella lisciva insieme a 3 chiodi poi, una volta risciacquati, dovevano essere esposti alla rugiada della notte; bollendo i chiodi insieme ai pannolini la persona che aveva fatto il malocchio si sarebbe sentita punta e si sarebbe allontanata dal bambino, anche col pensiero; in Appennino si faceva uso di pannolini verde o blu scuro fin tanto che il neonato emetteva la meistra. Secondo l’antica teoria della simpatia dei colori, l’uso di pannolini scuri avrebbe favorito la pronta uscita delle feci scure all’esterno.

I neonati venivano vestiti con camicini (camisot o camisin sulla pelle), pezze (li pesi), al culasol o al culett (no cuciture), la bragota, fascie (li fasi), lunghi (media 2,75 metri) o curti (o mesi fasi) (media 1,60 cm9, cova seimpia o du curdeli (no cuciture), la vesteina (coprifascie), la bavarola (bavarein o sbavacin), la scufleta, al manupleini, i scalfarot, al poprtinfant, al busten.

Vi era la superstizione che le fasce sporche non andassero appoggiate a terra  perhce’ potevano causare dolori di ogni tipo, che non andassero asciugate di notte per malattie/steriadura; il cambio ritardato rendeva i bimbi sani e forti se imbevute di urine (la pesa).

Ora un proverbio: estate e inverno: i putlett sensa dent i gh’ha fred da tot i temp, l’e’ mei suder che toser, i pesein cheld, al bost quacee e al cul al fresch.

Il colostro (prem lat, lat mat) era considerato un prodotto del seno residuo del periodo gravidico (presente nella mammella gia’ molto prima del parto), quindi inadatto al neonato, non veniva fatto assumere al bimbo. La lattogenesi era  definita “l’allacciarsi del latte” o “gruperes dal lat”; la montata lattea era “La pina dal lat”, al lat dla mama l’e’ il magner a medseina, al putin  l’ha da ander bein ed corp per creser bein, al lat s’e’ indignee (il latte ha smesso di fluire), der indree al lat (dare inidietro al latte), al latameint l’era puli (l’allattamento era pulito).

Detti dialettali:

1- Meter o der a balia, mettere o dare a balia; s’l’era ‘na dona a l’unor dal mond, s’l’era fat dir ed bein o ed mei

2- Baliòuna: prosperosa

3- Eser a balia, essere a balia

4- La pega dla balia, la paga della balia

5- Meter a tevla la balia, mettere a tavola la balia

6-Vino e allattamento: veina dla mamelach’la fa al lat der a balia fòra ed cà

 

Allattamento misto e artificiale

Quando ci si accorgeva che il latte si riduceva sostituiva una poppata con la polpa d’un pòmm còt; il latte era ricavato da una capra o da un’unica mucca giovane non gravida (in guastallese ‘na vàca voeda, una vacca vuota) che non avesse mai figliato. Il latte veniva diluito  con l’acqua d’orzo (l’acqua d’orz) piu’ miele oppure, anticamente, la farina diastasata (fiour d’fareina pasee in dal fouren (il fiore di farina passato nel forno). Si usava  una boccetta di vetro piu’ il succhiotto in lattice (pipot o pipiola, a Santa Vittoria pivien, in guastallese pipieul).

Il divezzamento (la slateda o slattata) o al slatameint (lo slattamento) iniziava tardi, tra gli 8-10 mesi, mai nei mesi caldi (come prescriveva la Trocta o Troctula Salernitana). I bias era il primo cibo, diverso dal latte, bias ed pan, mastigas (masticacci), fer i bcon o i bias; la papa, pan biscutà (pane biscottato) piu’ zucchero o mela (miele piu’ acqua (o decotto d’orzo) piu’ oli boun (olio d’oliva crudo); teri o ciopi erano la farina bianca (al fior) piu’ cruschello (al romsulin). La biscottatura: una notte in dal foren dla stoa, calda, an s’pol mia der al pan verd ai putein. La papa in brod ed cherna (seguiva la pappa semplice, il bordo di carne di piccione (brod douls, al pisoun al fa un brodpin e cun dla sustansa, al brod ad pisunsin al fa bon al vecc e al piculin, al brod ed pisoun al fa bein daboun. Si mangiava inoltre l’anatra muta (nadar mot), carne tenera, dolce e nutriente e alla pappa veniva aggiunta una piccola quantita’ di vino buono (vein boun); il vino buono fa buon sangue (fer boun sangov). C’erano inoltre le pappe povere, condite con oli ed nousi, oli ed gramustein eo ed vinaso, oli ed ravacioun o ravess (olio di navone), buter sufrett ed grass ed nimel (solo parte liquida).

Il tardo inizio del divezzamento limitava le intolleranze ma limitava una corretta crescita (rachitismo, atrepsia, Mel dal simioun o Simiot). L’apporto proteico avveniva tramite i bias ed cherna (piccione, pollo, quaglia, faraona), al grell (passeri, passeracei, merli), da carni bianche di pesce (gatto, carpa, persico, gobbo) e da uova (solo il tuorlo, l’albume era considerato scarsamente nutriente); vi era un ostracismo verso il grana PR, considerato pesante e poco digeribile.

RIMEDI SEMPLICI E…ARTIGIANALI

Iperemia glutei/perineo: al culross dal putein o pela rusessa dal cul. Rimedi: acqua piu’ oli boun, la cera d’ov, al distrot bianc (polvere di borotalco)

Mughetto o bucarola maceda, l’Herpes labiale era causato da una cattiva digestione del latte; si poteva rimediare con acqua e aceto bianco

Singhiozzo (sangiot dla chersmonia) era considerato uno stimolo per far crescere in altezza: si poteva rimediare facendo gocciolare sulla lingua sostanze acide (aceto, vino, limone, aceto piu’ zucchero) con un sorso d’acqua.

Crosta lattea: latess o lateuss (dermatite seborroica del cuoio capelluto) dipendeva dal svilopp dal servel (toglierla dava “deblesa al servel”); una secrezione morbosa, sfogh ‘d sangov, purgava all’esterno dla mersa “senno’ la malatia la va ‘d’deinter” (secondo i canoni ippocratici della materia peccans). Si poteva rimediare ammorbidendo  delle squame con oli boun, oli ed vaselina, oli ed ravacioun o ravizzoun, oli ed nous, oli ‘d vinasol poi uso ed petneina(unghie), usando un caschetto di foglie di edera (leddra); la polvra ‘d taroj, acqua dal canal, al de’ dl Asensa (Luzzara), i’ uslen in porta gnanch da magnar ai so puten.

Oftalmia (occhio rosso, oc ross): si poteva rimediare col decotto di foglie di betonica e di semi e fiori ed stupioun o fioralis (lavare l’occhio con la rugiada al Gloria di Pasqua)

L’indigestione si curava scaldando nel forno la carta blu (da drogheria) o gialla (da macelleria) e spalmandola ed sev ed caval (sego); veniva appoggiata sullo stomaco, trattenuta dalle fasce o dal bustein per una notte intera, con la funzione di attivare il calore utile per gli organi interni ed attivare la digestione.

 

SUPERSTIZIONI E CURE

Fin dal XIII secolo il medico Aldobrandino da Siena consigliava di tagliare regolarmente le unghie ai neonati e lattanti per evitare infezioni e lesioni (a tajer agl’ongi ai putein cech/dveinten leder) con delle forbicine di metallo (agh se scurta la vesta); le mamme e le nonne, per star nel sicuro, mordicchiavano le unghie. Se c’era il naso grosso si applicava un ciapett (molletta stendipanni ) dopo averla resa meno stringente  per il tempo piu’ lungo possibile e tollerabile. Se il neonato faceva i capricci si batteva e percuoteva al cul (cioe’ eliminare dal corpo, far uscire quella ineducata caratterialita’), suler al cul, der ‘na suladeina, patacher, patuser, der soquanti patachi in dal cul, der al ris in dal cul, at cat al cul e agh fagh suner marosca….

 

Verso le ore 23,30 la serata è terminata fra i numerosi applausi della platea presente.

 

Davide Favali