TERMINALITA’ NON ONCOLOGICA: LA S.L.A.

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Le cure palliative per le patologie non tumorali sono un tema di grande attualità dal momento che nei Paesi sviluppati la morte avviene molto più spesso di una volta a seguito di malattie croniche non tumorali.

Le malattie croniche non tumorali, strettamente legate all’invecchiamento della popolazione, sono caratterizzate dal lento degradare della funzionalità con un andamento associato però a picchi di riacutizzazione della malattia. La maggior difficoltà ad individuare il momento della vicinanza alla terminalità per tutte queste patologie non oncologiche rende ancora più problematico stabilire il limite delle cure e quali cure attuare, soprattutto a domicilio.

Si assiste così ad un crescente ricorso per queste patologie alle cure in ospedale che sempre più spesso diviene però luogo dì morte con frustrazione non solo degli ammalati e dei loro familiari, ma anche degli stessi sanitari e con costi crescenti per le cure di fine vita. Nella società odierna “La sofferenza dovrebbe essere affrontata piuttosto che eliminata, e la morte dovrebbe essere accolta anziché respinta”.

La S.L.A. (Sclerosi Laterale Amiotrofica), conosciuta anche come Malattia di Lou Gehrig (il giocatore di baseball che con la malattia sollevò l’attenzione dell’opinione pubblica nel 1939) è una malattia neurodegenerativa progressiva del motoneurone che non ha terapie specifiche e con un’aspettativa di vita in media di 3-4 anni, che in alcuni casi può superare anche i 20 anni. La malattia è caratterizzata da rigidità, contrazioni muscolari e graduale debolezza a causa della diminuzione delle dimensioni dei muscoli, che porta a difficoltà della parola, della deglutizione e della respirazione.

Il caso clinico che descriveremo oggi riguarda un paziente di 55 anni a cui è stata diagnosticata la SLA nel novembre del 2016, coniugato con una figlia ed entrambi i genitori in buona salute. Grande fumatore e con una bronchite cronica ostruttiva di grado avanzato, ha sempre avuto una personalità molto forte ed è sempre stato caregiver di se stesso. I rapporti coi famigliari sono buoni e non sembrano esservi interferenze esterne.

Il paziente è seguito a domicilio dal medico di medicina generale e dal medico palliativista; la malattia è in fase avanzata, riesce a comunicare solo con il comunicatore e tramite cenni del capo, assume i farmaci in parte per os ed in parte tramite PEG e rifiuta sia la ventilazione non invasiva (NIV) che la trachestomia.

Nel corso degli ultimi mesi la malattia è progredita, il paziente presenta scialorrea con frequenti accessi di tosse ed episodi di broncospasmo ed inizia ad essere disfagico in modo importante con numerosi episodi di “ab ingestis” e due polmoniti.

Comunica così la sua intenzione di chiudere la partita, rifiuta il cibo anche tramite PEG ed ha atteggiamenti ambivalenti riguardo la terapia, l’umore è costantemente depresso e parla spesso di eutanasia e di Svizzera.

La gravosità dell’ impegno famigliare nella gestione quotidiana del paziente fa propendere per un ingresso in Hospice, col paziente pienamente consapevole della sua malattia e della prognosi, accompagnato da moglie e genitori.

All’ingresso il paziente presenta dolore al rachide, soprattutto durante la posturazione per l’igiene, dispnea con abbondanti secrezioni ed importante distress, relaziona con fatica ma volentieri, si alza in poltrona e continua a fumare nel salottino con accessi di tosse sempre più frequenti. Le cure riescono a controllare il dolore ma la dispnea sempre più marcata e la tosse lo sfiniscono; la sofferenza, sia fisica che psicologica, aumenta progressivamente, ma non vuole assumere più nulla per os nè essere ulteriormente alimentato tramite PEG, accetta solo un minimo di idratazione per via sottocutanea.

Il paziente comunica nuovamente la sua volontà di dipartire, cosicchè il personale chiede un colloquio con moglie e figlia, le quali, al corrente delle decisioni del paziente, le approvano. Anche i genitori, pur non condividendo, non pongono ostacoli al percorso deciso.

La prognosi infausta e breve termine e la sintomatologia non controllata (soprattutto il distress respiratorio) conducono alla decisione di dare inizio ad una sedazione profonda, ovvero la riduzione intenzionale della vigilanza con mezzi farmacologici, fino alla perdita di coscienza, allo scopo di ridurre o abolire la percezione di un sintomo altrimenti intollerabile per il paziente, nonostante siano stati messi in opera i mezzi più adeguati per il controllo del sintomo, che risulta quindi refrattario. Prima di ciò il paziente chiede di salutare la figlia in forma privata (nessuno è presente al colloquio) e trascorre poi la serata con moglie e genitori in un’atmosfera serena e tranquilla.

Inizia quindi la procedura farmacologica di sedazione che dura circa 48 ore, con il paziente che non si è mai risvegliato e non ha mai mostrato segni di sofferenza nè accessi di tosse. La famiglia è sempre stata presente in tutte le fasi della sedazione, apparendo provata ma fortemente motivata; al termine del percorso ha dichiarato il proprio sollievo condividendo  integralmente le scelte assistenziali ed il percorso finale.

Esiste una questione etica sulla sedazione palliativa, ovvero, la sedazione vista come una “slow euthanasia” o come alternativa all’eutanasia (“morte assistita”).

Esistono però delle grandi diversità concettuali, perchè mentre l’eutanasia ha come obiettivo la morte del paziente utilizzando farmaci e dosaggi adeguati a provocare la morte del paziente e come risultato la morte del paziente, la sedazione palliativa ha come obiettivo il controllo dei sintomi refrattari utilizzando farmaci e dosaggi adeguati al controllo dei sintomi e come risultato il grado di controllo dei sintomi.

Ringraziamo per i preziosi contributi il dott. Fiorenzo Orlandini ed il dott. Antonio Manni.

Davide Favali